24 febbraio, 2008

Leghisti in pellegrinaggio in Terra Santa: a lezione di esoterismo?

La Terra Santa diventa meta di pellegrinaggio politico per iniziativa di Mario Borghezio. A ridosso delle festività pasquali, la fondazione presieduta dall’eurodeputato leghista, "L’Europa dei popoli", organizza una tre giorni nei luoghi del Cristo. Ne dà notizia Radio Padania, durante la rubrica "Padana viaggi". 

Non si tratta solo di cristianità piegata ad un impegno politico inteso come resistenza all’Islam. Qui c’è dell’altro. Un’ambiguità di fondo – oppure una certa confusione sul piano delle idee. L’evento principe del pellegrinaggio sarà, infatti, un convegno - che si terrà a Gerusalemme- su "Il simbolismo della croce", per assistere al quale è anche previsto un volo charter per quanti non fossero interessati alle altre tappe del programma. Dove sono l’ambiguità e la confusione? "Simbolismo della croce" è un libro del 1931 di René Guénon, di cui già una volta Borghezio aveva caldeggiato la lettura ai suoi avversari. E il "simbolismo" di quel testo non ha a che fare con la teologia, bensì con l’esoterismo. 

Perché è di esoterismo e di occultismo che Guénon - massone - era studioso. Uno studioso che concepiva i suoi scritti come strumenti per "rifondare" la massoneria, la quale, a suo parere, connotandosi nel tempo in senso sempre più antireligioso aveva finito con il tradire se stessa. Ma è soprattutto un aspetto della "dottrina" di Guénon a cozzare con lo spirito cristiano che Borghezio pretenderebbe arruolare sotto una camicia verde. Per Guénon la croce ha una carica simbolica in sé, a prescindere dal sacrificio del Nazareno: la croce non assurge a simbolo in seguito alla passione di Gesù, dice Guénon; piuttosto Gesù scelse una croce per immolarsi proprio perché essa già aveva in sé e dall’origine dei tempi un significato simbolico. Vero che in conformità con lo spirito massonico la croce si fa così "simbolo del valore universale riconosciuto in tutte le epoche da tutti i popoli, senza distinzione di razza e religione", non si vede, però, cosa questo relativismo di una croce riconosciuta sì ovunque, ma in quanto svuotata del suo significato teologico cristiano, abbia a che fare con un pellegrinaggio in Terra Santa, oltretutto in prossimità della ricorrenza pasquale.

Ancor più vero, invece, che, se una croce vale l’altra, diviene allora possibile quel sincretismo che permetta a Borghezio di tenere unita la "Padania", improvvisamente campionessa di cristianità di oggi, alla "Padania" della croce celtica dell’altro ieri. Chissà se verrà detto ai pellegrini leghisti, però, di come il Guénon, che su invito di Evola scriveva su "Il regime fascista", non solo si sposò con una donna musulmana, ma si convertì lui stesso all’Islam. 


16 febbraio, 2008

110 anni dal J'Accuse...

Se c’era un traditore, questi non poteva che essere un ebreo. E il traditore c’era – lo dimostrava il rinvenimento del borderau, una distinta di informazioni militari confidenziali passate ai tedeschi. E pure l’ebreo c’era: il capitano Dreyfus, "il primo ebreo accettato allo Stato maggiore".

Dell’arresto per spionaggio di un ufficiale dell’Esercito, fu Le Figaro il primo a dare notizia. Ma è alla prima pagina del quotidiano La Libre Parole di Edouard Drumont ("Alto tradimento. Arresto dell’ufficiale ebreo A. Dreyfus") che si deve l’apertura della campagna antisemita. Perché a fronte di un pregiudizio popolare cristallizzato da secoli ( lo stesso Voltaire concludeva la voce "Ebreo" del suo Dizionario filosofico con questa raccomandazione: "tuttavia non occorre bruciarli") al grosso della stampa parigina venne facile e spontaneo accodarsi a Drumont e invitare i lettori al linciaggio dei francesi ebrei, "traditori per nascita".

A porte chiuse e all’unanimità i giurati del tribunale militare decidono quindi per la degradazione del capitano Dreyfus e per il suo esilio all’Isola del Diavolo. E se alcuni (tra cui Lucien Herr della Scuola normale superiore, Émile Duclaux dell’Istituto Pasteur e Léon Blum e Jean Jaures della Revue Blanche) convinti dell’innocenza di Dreyfus reclamano la revisione del processo, la stampa antisemita risponde che la loro é " una macchinazione per colpire l’onore dell’Esercito e dello Stato": "gli ebrei usciranno schiacciati, annientati, destinati per secoli all’esecrazione di tutti i francesi e braccati come bestie selvatiche", assicura Le Journal de l’Aveyron.

Scoperta la vera identità del traditore – un comandante indebitato dal gioco, Ferdinand Esterházi- pure il colonnello Georges Picquart, capo dell’ufficio informazioni dello Stato Maggiore, chiede la revisione, ma subito viene allontanato in Tunisia e in seguito arrestato.

Per mettere "la verità in marcia" occorre un gesto inusitato. E un romanziere di successo decide, abbracciando l’impopolarità, di accantonare momentaneamente la propria opera per gettarsi a gamba tesa nelle vicende della Cité , incorrendo così deliberatamente negli articoli della legge sulla stampa che puniscono i reati di diffamazione: è il solo modo per portare il caso Dreyfus in sede di dibattimento civile dove sarà possibile tentare di restituire i fatti alla loro trasparenza.

Scrive quindi una lettera aperta al Presidente della Repubblica e la consegna alla rivista L’Aurore che la pubblica con il titolo "J’Accuse...!". A firma di Émile Zola, il 13 gennaio 1898 nasce la figura moderna dell'intellettuale, dell’"uomo di cultura che si fa uomo politico" e che mette in campo la sua autorità. "È mio dovere parlare, non posso rendermi complice", spiega Zola nella sua accusa, prima di denunciare le autorità militari per "aver sfruttato il patriottismo ai fini dell’odio e per essersi appoggiate alla stampa ignobile al fine di fuorviare l’opinione pubblica e di utilizzarla per un’impresa di morte dopo averla fatta delirare".

Poco importa che il termine "intellettuale" venga dapprima adottato in senso dispregiativo dal critico letterario Ferdinand Brunetière per indicare quegli scrittori che tradirebbero la loro "missione" occupandosi, come Zola, di fatti estranei alla loro attività e di cui non hanno conoscenza tecnica. Se per Brunetière il caso Dreyfus non appariva che come un circoscritto e "tecnico" caso di spionaggio militare, per i dreyfusardi esso già si ammantava di universalità configurandosi innanzitutto come questione di dignità umana e di tutta un’umanità violata in un uomo solo ( i dreyfusardi sempre nel gennaio del 1898 rivendicheranno con orgoglio il loro essere "intellettuali" riunendosi nella Lega dei diritti dell’Uomo).

E poco importa pure che il processo contro Zola non abbia poi prodotto gli effetti sperati e che Dreyfus verrà liberato solo in seguito ad amnistia sul finire del 1899 per essere infine riabilitato e reintegrato nell’Esercito nel 1906. Perché a distanza di centodieci anni ci resta tutta l’indignazione di quel gesto solitario e coraggioso che, nell’atto di scrivere una lettera, sfida e diffama l’opinione pubblica, per ristabilire una questione di principio e per ribellarsi, con il proprio "io", all’Autorità costituita che si fa arroganza, da un lato, e alla "pancia" del popolo, dall’altro.

E di Zola ci resta pure quel "Per gli ebrei", pubblicato su Le Figaro al montare dell’Affare Dreyfus, di cui vale la pena sottolineare alcuni passaggi: "Cosa si rimprovera agli ebrei? Taluni dicono di non poterli soffrire, di non poter dar loro la mano senza provare un brivido di ripugnanza. Allora ritorniamo alle caverne e ricominciamo la barbara guerra tra specie e specie. Lo sforzo delle civiltà è proprio quello di cancellare questo sforzo selvaggio di gettarsi sul proprio simile quando non è del tutto simile.

Gli ebrei sono accusati di essere una nazione nella nazione, si sposano tra loro , conservano strettissimi legami di famiglia; mostrano, nel loro isolamento , una straordinaria forza di resistenza. Sono pratici e avveduti di natura. Ma gli ebrei sono opera nostra, sono l’opera di milleottocento anni di imbecille persecuzione. Li abbiamo rinchiusi entro quartieri infami, come lebbrosi, e ci meravigliamo che abbiano vissuto appartati. Li abbiamo schiaffeggiati, ingiuriati, colmati di ingiustizie e di violenze; niente di strano perciò se in fondo al cuore, magari inconsapevolmente, hanno conservato la speranza di una lontana rivincita.

Siamo più di duecento milioni di cattolici , gli ebrei sì e no sono cinque milioni, eppure tremiamo, chiamiamo le guardie, ci mettiamo a schiamazzare di terrore come se orde di predoni si fossero abbattute sul paese. Si finisce per crearlo, un pericolo, gridando ogni mattina che esiste. A forza di mostrare al popolo uno spauracchio, si crea il mostro reale. Dobbiamo invece arricchirci delle loro qualità, poiché ne hanno. Far cessare la guerra delle razze mescolando le razze."


Stona il termine "razze", certo - ma si tratta di un testo vecchio più di un secolo. Eppure sostituiamo "ebrei" con "rom" e otteniamo il miglior intervento che, magari a seguito dei fatti di Tor di Quinto del novembre scorso, un intellettuale avrebbe potuto firmare accettando la responsabilità di sfuggire ai facili consensi per rispondere – contro ogni interesse e convenienza- al richiamo della ragione che si oppone alla pericolosa passione degli animi.


Radio Padania attacca Gad Lerner

"Mi chiedo perché gli ebrei non lo espellano dalla loro comunità", si lamenta uno. "E’ un nazista rosso", rilancia un altro. "Io lo vado a prendere in sinagoga per il collo...", ribatte il moderatore. Già, il moderatore: perché questo è solo un estratto degli interventi di alcuni ascoltatori di Radio Padania Libera durante la rubrica "Filo diretto" di Leo Siegel, ex missino ed esponente della corrente liberal-libertaria (!) del movimento leghista.

Il destinatario di tanto risentimento? Gad Lerner. La sua colpa? L’essersi chiesto - durante una puntata del suo L’Infedele (La7) - se l’attuale infastidita preoccupazione di alcune realtà locali sul "dove mettere i rom" non possa lasciar prospettare - tempo qualche decennio - scenari da "soluzione finale".
 

Durante la trasmissione, Lerner non ha nemmeno accusato esplicitamente la gente leghista di razzismo o di xenofobia, non l'ha persino fatto davanti a chi protestava contro un insediamento di nomadi ostentando magliette e striscioni con frasi quali "Zingari vi odiamo" e "Zingari = merda".

Che a Leo Siegel e al suo pubblico, quindi, non sia semplicemente andato giù l’accostamento tra rom ed ebrei per via di una radicata e gelosa sensibilità alle vicende del "popolo del Libro"? Che Leo Siegel, cioè, nel dibattito tra singolarità storica o meno della Shoah condivida la prima tesi e rifiuti pure la terza, quella degli intellettuali ebrei che, seguendo Lévinas nella rappresentazione del passato come di un questione che non smette di interrogare il presente, pur mantenendo ferma l’unicità della Shoah, la ritengono atta a servire da metro di vigilanza su crimini presenti o a venire?

Nient’affatto. Siegel anzi finisce proprio con il banalizzare il dramma ebraico, se addirittura si spinge ad invocare contro l’"operazione sconcia" del "nasone ciarlatano" (così lui definisce Gad Lerner) un "processo di Norimberga per lesa immagine". E, nella corsa al "dargli addosso allo zingaro", tra i tanti insulti ai rom in quanto tali inesorabilmente riemergono anche i vecchi pregiudizi antisemiti: "Meglio usurai (ebrei,ndr) che schiavisti (rom)", si sfoga un ascoltatore.

Si obietterà che si tratta dei soliti toni, coloriti e forti, di programmi radiofonici aperti a contributi telefonici "senza filtri né censura". Il problema è che gli ascoltatori di Leo Siegel dialogano e si confrontano con il conduttore. E il conduttore che fa? Cerca di moderare i toni, appunto? Prova a correggere, dove possibile, il tiro? Ad avventurarsi in distinzioni tra forma e contenuto? Ad accettare certi sfoghi solo a condizione di bollarli come provocazioni intellettuali?

No: Leo Siegel ascolta, condivide e si affanna a ringraziare per gli interventi. Addirittura talvolta rincara la dose. "Anche i rom venivano massacrati nei campi di concentramento", ricorda un ascoltatore. Ribatte Leo Siegel: "Sicuramente c’è stata la persecuzione di questo popolo, ma sarebbe facile fare battute sul perché e per come".

Disarmante cinismo contro il quale a nulla serve appellarsi alle lezioni della Storia. Perché Siegel evidentemente la conosce, la Storia; e del nazismo conosce pure la nefandezza del Porrajmos, lo sterminio degli "zingari". Solo che la lezione che lui ne trae giustifica Himmler e colpevolizza i rom. 

Nessun timore, però: Leo Siegel non auspica per i tempi presenti né forni crematori né camere a gas. "Credo che oggi ci possano essere metodi più democratici e civili", replica, sorridendo, all’ascoltatore che definisce i rom "una razza bastarda da sterminare, per la quale ci vorrebbe un uomo come quello coi baffetti". E puntualizza: "Noi siamo gandhiani".

Daniele Sensi, L'Unità, 20/10/2007


Bernard-Henri Lévy e l'umanitarismo

Nel 1994 Bernard-Henri Lévy annotava: "l’integralismo non è più una minaccia, è già qui. Esso avanza, ogni giorno. Ebbene, cosa gli opponiamo? L’Umanitario. Cioè niente. Ed è un segno, temibile, del cattivo stato della civiltà democratica". 

Lèvy non mette in discussione i meriti delle organizzazioni umanitarie, alle quali pure riconosce un ruolo di rilievo nella battaglia antitotalitaria. Dell’umanitarismo egli attacca l’essenza ideologica e ciò che essa comporta quando sopraggiunge confusione tra l’umanitario e il politico. 

Perché da un lato "si fa sempre politica, anche, e soprattutto, quando si pretende di farne affatto", e quindi la "carovana umanitaria" può finire con l’aiutare i "signori della guerra", come nel 1986, quando molte ONG parteciparono, di fatto, alla ristrutturazione della geografia umana e fisica dell’Etiopia voluta da Menghistu. 

Dall’altro lato si assiste alla riduzione di problemi di carattere politico e militare a questioni umanitarie, "da parte di Stati divenuti incapaci di pensare politicamente e che si servono dell’umanitario per mascherare la propria indigenza", facendo sì "che lo stato tutto intero divenga un grande medico collettivo", il cui "obiettivo non sarà - che idea! - fermare gli assassini ma consolare le loro vittime e permettere loro, almeno, di morire a stomaco pieno". 

È quell’umanitarismo che, durante la guerra di Bosnia, mentre diceva agli assediati di Sarajevo: "noi non abbiamo né il diritto né il dovere di salvarvi", distribuiva loro cibo, "come se si fossero distribuiti panini alle porte dei campi di concentramento". Un umanitarismo che fa il paio con una certa ideologia dei diritti dell’uomo, "che in questa accezione diventano un discorso di banalizzazione del Male, poiché, partendo dalla giusta idea che ogni vittima merita simpatia e soccorso, approda alla falsa idea che tutte le vittime si equivalgono e che non è il caso di distinguere né tra i tipi di simpatia che esse devono ispirarci né fra le ragioni della loro sofferenza.". 

Già nel 1983 Lévy denunciava il rischio che il tema dei diritti umani potesse "servire da ultima cauzione alle ideologie che esso si era proposta di combattere; occultando per esempio il problema di ciò che fonda la trama di un legame sociale totalitario, e, con il pretesto di un sostegno senza riserve alle singole vittime, fuggendo alla questione chiave del nostro tempo che è quella della rivoluzione democratica". 

Perché può esistere discrepanza tra l’umanitarista e il democratico. Lévy ci ricorda che il democratico non è un ottimista, bensì un pessimista: un democratico è e deve essere rassegnato all’idea che non possano esistere società senza zone d’ombra, perché "negare la radicalità del male è sempre un modo di rinforzarlo; il male sbarrato, cioè respinto, soffocato, è un male che si ripresenta con una virulenza decuplicata". 

L’umanitarismo votato all’ottimismo "con la sua nostalgia di un mondo innocente in cui tutti gli uomini possano essere fratelli, con il suo ripeterci che va sradicato l’odio" è parte della regressione dell’antifascismo contemporaneo, perché "il pessimismo filosofico è, ben più dei diritti dell’uomo, la vera acquisizione del pensiero democratico degli ultimi vent’anni". 

Il problema è che "l’umanitarismo è un vitalismo. Invece di darsi come il democratico un’immagine nobile dell’uomo, e di pensarlo come un’anima o uno spirito e di rivolgersi a ciò che fa di lui, anche se sofferente, un essere di linguaggio e di pensiero – l’umanitarista lo riduce a quel principio di vita che condivide con gli animali e a cui già lo aveva ridotto il boia" . 

E se in guerra è ben difficile ai medici curarsi pure delle anime o resistere al vitalismo, tuttavia si può "nel magma indifferenziato di ferite e sofferenze, tentare, anche con le parole, di operare la distinzione tra massacratori e massacrati." Spetta "a quelli che non curano, o a quelli che curano e parlano, o a quelli la cui funzione è parlare mentre gli altri curano, di non nutrire questa illusione di una umanità uniformemente dannata". 

Ma come operare questa distinzione quando si ritiene che "gli uomini sono solo corpi, che questi corpi sono solo materia e che, dal momento che niente assomiglia di più a un mucchio di materia di un altro mucchio di materia, è non soltanto illegittimo e scandaloso, ma impossibile distinguere fra le vittime e conferire uno statuto speciale, per esempio, alla Shoah"? 

Daniele Sensi