Se c’era un traditore, questi non poteva che essere un ebreo. E il traditore c’era – lo dimostrava il rinvenimento del
borderau, una distinta di informazioni militari confidenziali passate ai tedeschi. E pure l’ebreo c’era: il capitano Dreyfus, "il primo ebreo accettato allo Stato maggiore".
Dell’arresto per spionaggio di un ufficiale dell’Esercito, fu
Le Figaro il primo a dare notizia. Ma è alla prima pagina del quotidiano
La Libre Parole di Edouard Drumont ("Alto tradimento. Arresto dell’ufficiale ebreo A. Dreyfus") che si deve l’apertura della campagna antisemita. Perché a fronte di un pregiudizio popolare cristallizzato da secoli ( lo stesso Voltaire concludeva la voce "Ebreo" del suo
Dizionario filosofico con questa raccomandazione: "tuttavia non occorre bruciarli") al grosso della stampa parigina venne facile e spontaneo accodarsi a Drumont e invitare i lettori al linciaggio dei francesi ebrei, "traditori per nascita".
A porte chiuse e all’unanimità i giurati del tribunale militare decidono quindi per la degradazione del capitano Dreyfus e per il suo esilio all’Isola del Diavolo. E se alcuni (tra cui Lucien Herr della Scuola normale superiore, Émile Duclaux dell’Istituto Pasteur e Léon Blum e Jean Jaures della
Revue Blanche) convinti dell’innocenza di Dreyfus reclamano la revisione del processo, la stampa antisemita risponde che la loro é " una macchinazione per colpire l’onore dell’Esercito e dello Stato": "gli ebrei usciranno schiacciati, annientati, destinati per secoli all’esecrazione di tutti i francesi e braccati come bestie selvatiche", assicura
Le Journal de l’Aveyron.
Scoperta la vera identità del traditore – un comandante indebitato dal gioco, Ferdinand Esterházi- pure il colonnello Georges Picquart, capo dell’ufficio informazioni dello Stato Maggiore, chiede la revisione, ma subito viene allontanato in Tunisia e in seguito arrestato.
Per mettere "la verità in marcia" occorre un gesto inusitato. E un romanziere di successo decide, abbracciando l’impopolarità, di accantonare momentaneamente la propria opera per gettarsi a gamba tesa nelle vicende della
Cité , incorrendo così deliberatamente negli articoli della legge sulla stampa che puniscono i reati di diffamazione: è il solo modo per portare il caso Dreyfus in sede di dibattimento civile dove sarà possibile tentare di restituire i fatti alla loro trasparenza.
Scrive quindi una lettera aperta al Presidente della Repubblica e la consegna alla rivista
L’Aurore che la pubblica con il titolo "J’Accuse...!". A firma di Émile Zola, il 13 gennaio 1898 nasce la figura moderna dell'intellettuale, dell’"uomo di cultura che si fa uomo politico" e che mette in campo la sua autorità. "È mio dovere parlare, non posso rendermi complice", spiega Zola nella sua accusa, prima di denunciare le autorità militari per "aver sfruttato il patriottismo ai fini dell’odio e per essersi appoggiate alla stampa ignobile al fine di fuorviare l’opinione pubblica e di utilizzarla per un’impresa di morte dopo averla fatta delirare".
Poco importa che il termine "intellettuale" venga dapprima adottato in senso dispregiativo dal critico letterario Ferdinand Brunetière per indicare quegli scrittori che tradirebbero la loro "missione" occupandosi, come Zola, di fatti estranei alla loro attività e di cui non hanno conoscenza tecnica. Se per Brunetière il caso Dreyfus non appariva che come un circoscritto e "tecnico" caso di spionaggio militare, per i
dreyfusardi esso già si ammantava di universalità configurandosi innanzitutto come questione di dignità umana e di tutta un’umanità violata in un uomo solo ( i
dreyfusardi sempre nel gennaio del 1898 rivendicheranno con orgoglio il loro essere "intellettuali" riunendosi nella Lega dei diritti dell’Uomo).
E poco importa pure che il processo contro Zola non abbia poi prodotto gli effetti sperati e che Dreyfus verrà liberato solo in seguito ad amnistia sul finire del 1899 per essere infine riabilitato e reintegrato nell’Esercito nel 1906. Perché a distanza di centodieci anni ci resta tutta l’indignazione di quel gesto solitario e coraggioso che, nell’atto di scrivere una lettera, sfida e diffama l’opinione pubblica, per ristabilire una questione di principio e per ribellarsi, con il proprio "io", all’Autorità costituita che si fa arroganza, da un lato, e alla "pancia" del popolo, dall’altro.
E di Zola ci resta pure quel "Per gli ebrei", pubblicato su
Le Figaro al montare dell’Affare Dreyfus, di cui vale la pena sottolineare alcuni passaggi:
"Cosa si rimprovera agli ebrei? Taluni dicono di non poterli soffrire, di non poter dar loro la mano senza provare un brivido di ripugnanza. Allora ritorniamo alle caverne e ricominciamo la barbara guerra tra specie e specie. Lo sforzo delle civiltà è proprio quello di cancellare questo sforzo selvaggio di gettarsi sul proprio simile quando non è del tutto simile.
Gli ebrei sono accusati di essere una nazione nella nazione, si sposano tra loro , conservano strettissimi legami di famiglia; mostrano, nel loro isolamento , una straordinaria forza di resistenza. Sono pratici e avveduti di natura. Ma gli ebrei sono opera nostra, sono l’opera di milleottocento anni di imbecille persecuzione. Li abbiamo rinchiusi entro quartieri infami, come lebbrosi, e ci meravigliamo che abbiano vissuto appartati. Li abbiamo schiaffeggiati, ingiuriati, colmati di ingiustizie e di violenze; niente di strano perciò se in fondo al cuore, magari inconsapevolmente, hanno conservato la speranza di una lontana rivincita.
Siamo più di duecento milioni di cattolici , gli ebrei sì e no sono cinque milioni, eppure tremiamo, chiamiamo le guardie, ci mettiamo a schiamazzare di terrore come se orde di predoni si fossero abbattute sul paese. Si finisce per crearlo, un pericolo, gridando ogni mattina che esiste. A forza di mostrare al popolo uno spauracchio, si crea il mostro reale. Dobbiamo invece arricchirci delle loro qualità, poiché ne hanno. Far cessare la guerra delle razze mescolando le razze."Stona il termine "razze", certo - ma si tratta di un testo vecchio più di un secolo. Eppure sostituiamo "ebrei" con "rom" e otteniamo il miglior intervento che, magari a seguito dei fatti di Tor di Quinto del novembre scorso, un intellettuale avrebbe potuto firmare accettando la responsabilità di sfuggire ai facili consensi per rispondere – contro ogni interesse e convenienza- al richiamo della ragione che si oppone alla pericolosa passione degli animi.